dott Antonio Castaldo, Sociologo e giornalista, Brusciano, Italia.
La “Compagnia Teatrale Anormali da Palcoscenico, fucina di teatro sentimentale fondata nel 2001”, come si legge nella brochure di presentazione, ha messo in scena una pièce teatrale di Eduardo De Filippo (Napoli 24.5.1900-Roma 31.10.1984), “Le voci di dentro”, presso il “Teatro Gloria” di Pomigliano d’Arco, lo scorso 17 dicembre. Il gruppo di giovani attori, guidato da Enzo Arena con il piglio e l’intraprendenza evocanti la figura dell’antico capocomico, con questo lavoro raggiunge il rispettoso traguardo della ventesima produzione ed introduce brillantemente la compagnia nel suo decimo anno di attività. Questa realtà nasce dalla formazione teatrale, seguita presso il locale liceo classico, sotto la direzione laboratoriale dell’attore Nello Mascia e la supervisione del prof. Vincenzo D’Onofrio presidente del Teatro Pubblico Campano. Dopo quella esperienza, i lungimiranti ragazzi e ragazze, appena acquisita la maturità classica, decidono di costituire una compagnia teatrale composta da 15 elementi di Pomigliano d’Arco e dell’hinterland della provincia interna di Napoli.
De Filippo scrive “Le voci di dentro” nel 1948 ed è lui stesso, poi, ad inserirla nella raccolta “Cantata dei Giorni Dispari”. In questa opera si rappresenta la trasognata realtà di Alberto Saporito che su indizi onirici è convito dell’avvenuto omicidio di un suo conoscente da parte dell’intera famiglia Cimmaruta del suo condominio. La sua denuncia comporta l’arresto di tutti gli accusati che ben presto, per mancanza di prove concrete, vengono rilasciati. Il dubbio che si sia trattato di un sogno che “sembrava così vero” attanaglia il Saporito che a questo punto teme la vendetta dei Cimmaruta. In casa Saporito, c’è un fratello, Carlo, che cerca di approfittare della situazione, con il carcere imminente di Alberto per calunnia od occultamento di prove, per svendere quello che resta delle attrezzature dell’antica attività di famiglia, quella di “apparatori di feste” ed uno zio, in perenne stato di afasia ma con la via pirotecnica comunicazionale il cui codice è chiaro solo al nipote Alberto.
Non più ristretti dalla Pubblica Sicurezza i Cimmaruta, zia e nipote, cameriera e signora, compreso il capofamiglia Pasquale, ad uno ad uno, sfilano in casa Saportito al cospetto dell’esterrefatto Alberto il quale ascolta le loro reciproche accuse. Ognuno additato quale sicuro autore di un omicidio che ormai andava svelandosi essere frutto fantasmatico di una mente reduce da un sogno.
In questo bailamme, Zì Nicola riacquista per un solo momento la parola per chiedere “ nu poco ‘e pace” e morire subito dopo sulla sua palafitta, staccato da quel mondo e da quella umanità in cui non si riconosce più.
Lo stesso Alberto Saporito incomincia a tirare le somme di questa amara ma significativa esperienza rivolgendosi ai Cimmaruta: “Io vi ho accusati e voi non vi siete ribellati, lo avete ritenuto possibile. Un delitto lo avete messo fra le cose probabili di tutti i giorni; un assassinio nel bilancio familiare! La stima, don Pasqua', la stima!...La fiducia scambievole ... senza la quale si può arrivare al delitto”.
La coscienza individuale, a tratti schiarita invano dai multicolori suggerimenti di Zì Nicola, scossa ora dal ritorno alla realtà di Alberto Saporito, è chiamata a vincolarsi ad un impegno nuovo, quello di abbandonare l’ipocrisia, la malvagità, il sospetto ed il disamore che spesso accompagnano l’apparente perbenismo.
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